Visita degli amici palestinesi

È un patriarca biblico. Mi ha abbracciato e baciato tre volte sulle guance, poi non perde tempo per ricordarmi che ha sei figlie e quattro figli e che tutti lo conoscono nella sua città. Si sente un re con questa discendenza e questo riconoscimento da parte della gente. La sua memoria è assicurata. Ma di cose ne ha viste tante nella sua vita, che si è svolta nel cuore spaziale e temporale di quello che è diventata la questione palestinese. Il suo villaggio arabo natale, Ijzim, non c'è più, ma esiste al suo posto un insediamento ebreo, mentre la sua famiglia si trova dispersa tra la Siria, profughi e Israele, arabi del '48. Ha combattuto due anni nell'esercito iracheno, arruolato a Jenin.

Mi ha colpito come ha parlato di questi tremendi sconvolgimenti nella vita di una famiglia come nella vita di un popolo; con grande rassegnazione, senza polemica o acidità nei confronti di un usurpatore. Anzi, vede il male proprio nella guerra, che fa morti da entrambe le parti, dalla sua, ma anche dal nemico.

Poi a tavola, circondato da famigliari, una parte, e dagli amici, si sente un re e parla. In arabo naturalmente, senza curarsi troppo se la persona a cui si rivolge capisce o no. E racconta cose, poi dice che la giornata che ha passato è stata la più bella di questa sua settimana in Italia. Ma ancora più bello è quando dice che palestinesi, come si definisce, e italiani siamo uguali. Stessi valori, stesse abitudini… e aggiungo che questo è vero per l'umanità intera.