La traversata della grande catena himalayana

ImageAlle 4 mi sono dovuto alzare! I cani, che fino a mezzanotte hanno abbaiato come in concerto esteso a tutti gli angoli della vecchia Leh, hanno ripreso timidamente a farsi sentire anche in queste ore che precedono l'alba.

Esco torpidamente dalla porta girando il chiavistello di legno e ripercorro i bui vicoli, ormai sapendo più o meno dove mettere i piedi per non incappare nei numerosi ostacoli: il canaletto scoperto in mezzo alla carreggiata, lo scavo in corso, l'alto zoccolo di un edificio…

Ci sono però i cani, appunto, che al vedermi emergere dalle tenebre ringhiano indecisi tra l'essere impauriti o il fare paura. Emetto un suono sibilante per rappacificarli e si ritirano, ancora minacciosi.

Seguo la via principale, ma è ancora talmente buio e le strade per niente illuminate che non se ne parla di prendere la scorciatoia attraverso il mercato. Non ne uscirei mai. Seguo invece la strada che mi porta, anche grazie al chiarore fuggevole dei fari di due auto che passano, alla stazione degli autobus, dove vedo il mio mezzo illuminato fiocamente dall'interno e in corso di caricamento. Anch'io col mio zaino salgo sul tetto e lo assicuro con le cinghie ai sostegni di ferro che mi sembrano sicuri. Poi scendo e prendo il posto 14 che mi era stato assegnato.

 
Alle 5 si parte. È l'inizio della lunga traversata himalayana, o meglio di una parte della gigantesca catena montuosa, dato che a nord di Leh ci sono ancora altissime montagne. Da Leh a Manali dobbiamo comunque percorrere 475 km su una strada che attraversa diversi valichi di altezza inaudita, tra cui il Tanglang La, il secondo passo più alto del mondo percorso da una strada carrozzabile.

Il tempo è coperto oggi, le nuvole diffuse coprono il sole, ma me ne accorgo quando ci fermiamo in un villaggio per la colazione, dopo circa un'ora e mezzo di marcia. Sono addormentatissimo e in questo lasso ho tenuto la testa appoggiata allo schienale davanti nel tentativo di prolungare il riposo notturno. Il sedile non è scomodo, devo dire, pur non essendo ricoperto di morbida imbottitura.

ImageIniziamo la lunga salita al primo passo, il più alto. Il percorso che deve compiere la strada per guadagnare quota con ragionevole pendenza è lunghissimo e sfrutta tutti i versanti delle montagne. Essendo molto lo spazio, tuttavia, non ci sono stretti tornanti. Al passo facciamo una sosta. Due donne legano pezzi di tessuto alle tante bandierine che sventolano nell'aria fredda di questa quota estrema. I 5.360 m di altitudine si sentono nel corpo con una strana sensazione indefinibile.

Ridiscendiamo e facciamo sosta a Pang dove si trovano alcune tende di nomadi. Prendo una zuppa di verdure e conosco Jodie, una ragazza inglese che viaggia nel mio pulman. Ci sono anche diversi israeliani, alcuni di aspetto sfatto.

Risaliamo verso il secondo passo, il Lachlung La a 5060 m, passando attraverso delle gole, poi dei torrioni di roccia e sabbia dai colori così caldi che ricordano i deserti dell'Arabia. Continuiamo a percorrere chilometri e chilometri senza trovare insediamenti umani. Conto sulle pietre miliari la sequenza interminabile: Sarchu 61, Sarchu 60, Sarchu 59, 58, 57…

Avanziamo lasciando dietro faticosi chilometri di strada tutta sterrata. Ogni tanto si passano dei ponti di ferro che il nostro mezzo pesante fa stridere con un fragore che assorda ma si perde nell'immensità di questi spazi.

Arriviamo finalmente a Sarchu, dove molti mezzi fanno sosta nella traversata tra Leh e Manali come testimoniano gli accampamenti di tende, ma non c'è niente altro. Siamo così entrati nello stato del Himachal-Pradesh. Lentamente il paesaggio si fa più verde, prima di licheni ed erbe, poi di arbusti e alberi. Abbiamo dimenticato i deserti freddi desolati del Ladakh.

A Darcha, che si trova in una posizione molto amena, arriviamo alle 19. Per scendere fino a questo villaggio nel fondovalle abbiamo dovuto percorrere una stradina a mezza costa a un'altezza impressionante rispetto al torrente che gorgogliava nell'abisso. Il fianco era scoscesissimo e si tuffava direttamente nel burrone. Come in tutto il percorso, ma qui in modo particolare, sono stati sofferti gli incroci con i numerosissimi mezzi pesanti che venivano nell'altro senso. Gli autobus, le cisterne, i camion che riforniscono Leh si sfiorano tra di loro e lambiscono con le ruote il ciglio della strada sgretolato come in una carezza alla morte.

Eccolo: è lui

L'autista guida con incredibile perizia e resistenza compiendo acrobazie impensabili. Dalle 5 di questa mattina sta lavorando al volante, ma né per lui né per noi Darcha segna la fine della giornata. Facciamo una breve sosta e ci rimbarchiamo nella luce calante dell'imbrunire. Presto cade la notte sebbene il traffico nel senso opposto non diminuisca.

Arriviamo a un punto in cui tre camion ci devono incrociare, ma stretti tra il fianco della montagna e il nostro mezzo non riescono a passare. Inizia così la tormentata manovra del fischietto: l'aiuto dell'autista – lui non guida, anche perché porta dei ridicoli stivaletti con il tacco – scende dal mezzo e col fischietto emette un suono ripetuto per segnalare all'autista di retrocedere ancora di 30 o 40 cm. Ripete diverse volte, finché arriva il fischio lungo e forte dello stop. Un centimetro in più significa rovinare nel burrone. Nella notte dobbiamo indietreggiare penosamente di parecchio terreno al suono inquietante di questo fischietto per fare strada agli altri veicoli.

C'è ancora mezz'ora di strada prima di raggiungere Keylong. L'entrata nel villaggio avviene, degna conclusione della giornata, con un'altra lunga manovra al fischietto perché il tornante è troppo stretto per essere affrontato in una sola volta. Sono le 20.30 e siamo tutti sfiniti.