Il castello di Shobak

5 aprile - Ho combattuto una feroce battaglia con il piumino del letto e le lenzuola verso le 5, il che mi ha costretto ad alzarmi e rifare il giaciglio all'alba. Mi sono alzato alle 8.30, vestito e sbarbato (era ora), poi ho fatto colazione sulla terrazza con un'aria fresca ma molto sole. Ho cercato di pagare il conto, ma l'operazione si è rivelata alquanto lunga perché ho dovuto scrivere una dedica sul libro degli ospiti, poi aspettare la registrazione di un gruppo di ebrei (come li ha chiamati Hamze riferendosi a questi israeliani), insomma una buona mezz'ora. Poi ho salutato Nicola, la ragazza australiana, e ho iniziato l'orrenda salita di tre quarti d'ora con lo zaino in spalla, una vera via crucis. Verso la fine della salita si ferma un'auto e mi raccoglie, ma non mancava ormai molto. L'autista non si spiega che io parli arabo con l'accento damasceno. Ora aspetto alla fermata il pulmino per Shobak.

 

Passa un'auto e mi dice che non ci sono trasporti pubblici, ma mi può portare a Shobak per 3 JD. Io non gli credo e rifiuto. Poco dopo arrivano due bambini che si mettono a scherzare con me. Ancora un poco e passa un'altra auto che mi offre un passaggio per 5 JD. Stavolta accetto perché l'attesa potrebbe essere lunga e magari non ci sono mezzi, ma gli dico che ci sto per 3JD.

Arrivo a Shobak e mi faccio lasciare nella strada principale, vicino a un fruttivendolo, dove mi devo informare su come andare alla fortezza. Inizio a parlare con il negoziante e mi dice che il castello sta a 5 km fuori dall'abitato, piuttosto lontano. Intanto ne approfitta per chiedermi se abbia letto il Corano e gli rispondo che qualcosa sì, ma che non mi interessa dal punto di vista religioso. Mi chiede se abbia imparato qualcosa a memoria e così gli recito al Sura Aprente, cosa che lo meraviglia e lo conquista e mi fa guadagnare una banana e un buon dattero fresco. Non solo! Un signore lì presente si offre di portarmi in auto fino al castello. Accetto e lascio lo zaino pesante dietro una tenda del negozio.

La fortezza crociata è interessante e posta in una valle singolare, spoglia e arida, con bei colori e viste nuove, antichi terrazzamenti abbandonati. Mi aggiro per i meandri poi, è l'una, esco pronto a percorrere i 5 km a piedi o sperando in un passaggio per tornare indietro.

Appena fuori dal sito, però, dei canadesi anzianotti mi chiedono aiuto. Il loro tassista pretende 60JD per un viaggio che ingenuamente avevano creduto di pagare l'impossibile prezzo di 16JD, dal ponte di Allenby verso i Territori occupati fino a qui. Aiuto nella trattativa e loro si offrono di darmi un passaggio fino a Petra dopo la loro visita al castello.

Mentre stanno dentro, mi intrattengo con il personale impegnato nel restauro della fortezza e in particolare un ragazzo, specializzato in archeologia e molto competente, mi fornisce interessanti informazioni storiche, decifra una difficile iscrizione in caratteri cufici scolpita nella pietra di un torrione che risulta ardua da leggere per gli stessi arabi lì presenti. Infine partiamo e passiamo a ritirare lo zaino dal fruttivendolo approfittando per acquistare dei datteri freschi che offro ai gentili signori canadesi.

Durante la discesa a Wadi Musa la signora mi dice che dovrei impegnarmi a trovare un lavoro che mi dia maggiore soddisfazione, che appaghi le mie inclinazioni, che dia espressione alle mie competenze e mi valorizzi. Mi sembra di ascoltare una seduta di psicoterapia in stile americano o qualche predicatore visionario. Usa un tono incoraggiante e materno, mi sprona dandomi consigli. So che ha tutte le ragioni, tuttavia mi sento in imbarazzo perché sta muovendo il coltello in una piaga e so che non mi muoverò per mettere in pratica le sue incitazioni. Più facile rimanere seduti nella sicurezza che si è conquistata piuttosto che sconvolgere la propria vita in modo premeditato.

In verità ho sì fantasticato che un evento esterno mi costringa a prendere una svolta, alibi per non essere io a cercarla e poi pentirmi di averlo fatto. Mi ricordo da ragazzino quando mi dicevo che a nessun prezzo avrei accettato la mediocrità nel coltivare i miei interessi; ripenso a quanto mi sono battuto per ottenere a tutti i costi quello che mi sono prefisso e poi raggiunto con successo. Ma poi nella pratica, nella realtà del lavoro, entrano in gioco altri fattori, il confronto con gli altri, lo scendere a compromessi dal proprio individualismo, la necessità di decidere per una strada che nemmeno io so quale sia. Se in quanto ad autodisciplina non mi manca niente, decisamente sono un perdente nel confronto con gli altri: arriva un punto in cui sono così sicuro di me stesso, sicuro di vincere, che questo mi basta e mi trovo appagato. Non accetto l'esame per avere il premio: io sono giudice di me stesso e sono io a valutare la mia prestazione, cosa che mi fa fermare come se avessi paura di umiliare l'altro con la mia vittoria, che mi sono già riconosciuto. Preferisco sapere di essere superiore che dimostrarlo agli altri? E' timidezza o presunzione?

In questi pensieri arrivo a Petra e scendo all'albergo dove lavora Saif, il nipote dell'egiziano Samir. Mi accoglie molto calorosamente, mi offre tè. Poi esco per un giretto in città ed eccomi seduto sulla terrazza di un caffè con uno splendido sole obliquo che mi riscalda mentre sorseggio un caffè senza zucchero ordinato per riflesso automatico, mentre l'avrei preferito zuccherato. Incomincio ad avere anche fame, avendo mangiato solo qualche dattero verso le 3.

Il cameriere è algerino e si siede a parlare con me in francese, poi in dialetto levantino con accento magrebino. Noto uno stile diverso nel suo atteggiamento, un po' distante, non mi guarda negli occhi, sento un rancore inespresso, non la cordialità dell'arabo orientale. Ma forse esagero perché è pur sempre gentile e mi offre il caffè. Torno la sera a mangiare nello stesso posto un buon mansaf, il primo che provo in Giordania.

In albero Saif si prodiga ad accontentare gli ospiti presenti offrendo in continuazione tè, caffè e sigarette. Ci sono 2 svizzeri, alcuni israeliani appena usciti dal servizio militare di due anni che alimenta la loro macchina da guerra e il francese che ho incontrato qualche giorno fa a Dana, Claudio. Mi offre il biglietto di ingresso a Petra che non userà domani.