Verso Ninh Binh: le risiaie di Tom Coc
Con una bici a noleggio che perde la pedalata se ci metto troppo sforzo sono arrivato fino a Tom Coc, dove il fiume scorre tra formazioni rocciose a picco e ha addirittura scavato passaggi cavernosi sotto di esse. Qui si prende una barchetta sospinta a remi da donnette dall'apparenza gracile, ma in realtà forzute come dei macisti tanto da poter remare per quasi due ore senza sosta.
Si risale la placida corrente e si passa sotto tre anfratti entrando in un'oscurità a cui l'occhio presto si abitua per percepire i disegni naturali del soffitto roccioso riflesso nell'acqua e poi abituarsi di nuovo alla luce man mano si avvicina l'uscita. Come al levarsi del sipario sulla scena del teatro, si scopre una successiva spettacolare conca circondata da svettanti baluardi che chiudono le risaie ai lati del corso d'acqua.
I contadini sono al lavoro e raggiungono i loro appezzamenti con barchette simili alla mia che remano usando i piedi con una disinvoltura sbalorditiva. Verso il tramonto, la vista sui campi invasi dal verde brillante delle tenere piantine di riso sembra irreale.
Per avere un'informazione mi rivolgo a un uomo per strada, che mi parla in un francese assai lento, formulando frasi a fatica, ricercando nella mente le regole per mettere insieme le parole che riesce in qualche modo a racimolare. Si esprime comunque bene e avrebbe voglia di fare conversazione per praticare le sue conoscenze e mi chiede se sia disponibile a incontrarlo ancora. Mi spiace doverlo deludere, perché domani me ne andrò da qui per continuare il viaggio. È la timida testimonianza di un rimasuglio di francofonia in un paese che oramai si è rivolto alla più utile lingua inglese, quella degli affari, anche questo un cambiamento epocale che ha coinvolto il Vietnam.Di ritorno in città, mi sono deciso ad andare dal barbiere. Pedalando per gli isolati intorno all'albergo, sono arrivato davanti a una bottega aperta sulla strada. Chiedo informazioni sulla tariffa e mi accomodo su una sedia di fronte alla parete coperta da un grande specchio. La stanza ha un soppalco, forse l'abitazione del giovane barbiere; l'ambiente è fiocamente illuminato al neon e suona una musica alla radio.
Mi piace andare dal barbiere quando sono in viaggio, all'opposto di quando sono in Italia dove la prendo come una delle cose meno piacevoli che bisogna pur fare. Invece all'estero è per me una coccola che mi concedo, oltre che una possibilità per osservare da vicino la vita del posto. Mentre aspetto il mio turno, ricordo che in India al taglio di capelli viene associato su richiesta un massaggio del viso, del cuoio capelluto, delle spalle e delle braccia; che in Siria ho invece subito la rimozione della peluria dagli zigomi tramite un filo di cotone attorcigliato alle dita del barbiere per farcela impigliare; che in Tunisia mi hanno fatto un taglio del pizzetto così accurato e scientifico come se dovesse mantenersi in eterno. Ma qui, rifletto durante l'attesa, i miei capelli di europeo devono rappresentare una materia di lavoro nuova rispetto ai dritti capelli neri dei vietnamiti.
Osservo con strabiliata curiosità le operazioni che compie davanti a me l'assistente del barbiere su colui che si sta sottoponendo alla pulizia dell'orecchio interno. La giovane donna si fissa alla fronte una rudimentale lampada da otorino che accende avvicinando i due capi di un filo scoperto per ricreare il contatto elettrico. Poi estrae dal cassetto un mazzo di strumenti vari di metallo e di legno e si mette al lavoro scavando nel canale auricolare e ritraendo con lunghissime pinzette dei residui di cerume che deposita sul poggiatesta della poltrona coricata. Il tutto si svolge sotto i miei occhi alla distanza di un metro.
Le operazioni di pulizia terminano con una specie di massaggio sonoro: infila nell'orecchio uno scovolino che rigira delicatamente e sul quale fa scorrere diversi strumenti zigrinati per produrre vari suoni impercettibili all'esterno. Il cliente si alza soddisfatto e si accomoda il successivo.
Quando arriva il mio turno mi accomodo sulla poltrona accanto pronto per sottoporti con curiosità al taglio di capelli. È tutto a forbice e sfoltitore. Il barbiere mi chiede a gesti se voglio farmi radere la barba e gli rispondo con un cenno affermativo. Mi sparge un po' di schiuma sul viso e con la lametta, praticamente a secco, rimuove piccole porzioni della mia barba di ormai 10 giorni.
Ci impiega un'eternità e cambia quattro lamette, fatto che mi induce a raddoppiare la tariffa ufficiale, calcolata sul lavoro richiesto dai visi praticamente imberbi degli uomini di qui. La lama mi passa anche sulle orecchie, sui padiglioni e lobi, sulla fronte e sul naso; sembra la caccia allo scandalo del pelo rimasto. Ne esco trasformato.