Il rinnovo del visto: viaggio per la burocrazia

16 agosto. Me la prendo con comodo attardandomi sopra la colazione che dura molto più del normale, conversando con due spagnoli e il franco-taiwanese. Una coppia spagnola, rimasta insensibile allo spirito del viaggio e attaccata alla moda, si presenta a tavola con occhiali da sole scurissimi che non tolgono nemmeno per parlare e formano un'invalicabile barriera. Il tedesco passa e si intrattiene con alcuni al tavolo ma non mi degna nemmeno di uno sguardo: ho la prova che il sentimento di antipatia è reciproco.

Raggiungo la stazione degli autobus e prendo un biglietto per Kerman. Nell'attesa un giovane zoroastriano mi parla della sua comunità a Yazd. Lui vi appartiene solo culturalmente, come succede molto più spesso di quanto si pensi all'interno di un paese che si presenta al mondo come uno Stato islamico teocratico. Lo zoroastrismo è fede persiana per eccellenza, basata sugli insegnamenti di Zaratustra di forse un migliaio d'anni prima di Cristo. È una religione che fu sostenuta dalla potenza degli imperi persiani e godette anche per motivi politici di un immenso prestigio, influenzando altre culture religiose.

Mi piacerebbe anche farmi insegnare alcune parole in persiano, ma lui, poverino, farfuglia molto, annaspando a ogni inizio di frase. Non è il migliore insegnante per cogliere la pronuncia, ma non voglio imbarazzarlo e ascolto pazientemente.

Nelle ultime campagne prima di Kerman si attraversano ampi tratti coltivati a pistacchi, uno dei prodotti simbolo dell'Iran. Siamo vicino a Rafsanjan, che ha dato il nome al politico affarista arricchitosi proprio con i pistacchi. Il termometro dell'autobus segna 48 gradi. Al primo tentativo di trovare un albergo, vedo un viaggiatore uscirne facendo segno che è al completo. È un italiano e andiamo insieme alla ricerca di un altro posto. Troviamo il Reza Mumtaz, una specie di covo di afgani che non ha nemmeno le docce. Bisogna lavarsi a pezzi con un catino.

17 agosto. Con Fabio dobbiamo risolvere un problema comune: il rinnovo del visto, che ci aspettiamo essere un'odissea attraverso i meandri della burocrazia. Per iniziare, l'indirizzo a cui ci presentiamo, quello riportato dalla guida, è sbagliato. È sì un posto di polizia, ma tratta tutt'altre questioni. I militari ci conducono su nelle camerate perché un loro commilitone armeno ci dia l'indirizzo corretto in inglese. Se non altro è praticamente di fronte al nostro albergo Reza Mumtaz!

In questo ufficio ci dicono di aspettare, pare che manchi la signora che si occupa dei rinnovi. È sparita o non si è presentata; cercano di rintracciarla in altre stanze, poi a casa al telefono, ma niente: dispersa. Dopo una lunga attesa, durante la quale non smettiamo di farci vedere di tanto in tanto per ricordare che siamo ancora vivi, veniamo condotti alla stanza del rais, il direttore. È un uomo piccoletto, dalla barba curata e dai capelli grigi, che dietro la sua scrivania è attorniato da diverse persone in piedi. Si rivolgono a lui per farsi risolvere un caso burocratico, ma anche umano, così come è anche il nostro. Godo come uno spettatore in queste scene di vita iraniana.

Il rais risponde al telefono con calma, poi ascolta con espressione seria e autoritaria ciascuno dei postulanti, riceve gli impiegati che gli sottopongono documenti da firmare o autorizzazioni da concedere. Una donna gli espone la sua situazione, aggiungendoci anche un po' di lacrime, mentre dietro la scrivania sta impalato un giovane afgano che non sembra avere fretta di niente e aspetta senza agire. Si direbbe anche lui un altro spettatore.

Arriva il nostro turno e il rais ci riaccompagna deciso all'ufficio da cui venivamo e gli impiegati gli fanno dire che dovremo presentarci a Mashhad, perché abbiamo ancora due giorni di validità e qui oggi non possono fare niente. Di tutti i posti, Mashhad va scartato decisamente per il rinnovo del visto: la seconda città dell'Iran, al confine con il Turkmenistan e l'Afghanistan, è dicono sia invasa da una folla di centro asiatici che affollano gli uffici causando un caos burocratico. Non che qui sia un modello di efficienza, ma almeno non è affollato.

Insistiamo, con la fragile convinzione che possono farcela, se solo vincono l'accidia. Infatti si decidono finalmente a tirare fuori delle istruzioni scritte a mano che stanno in un cassetto della scrivania, e seguendo la falsariga di una domanda già presentata, compilano il modulo con i nostri dati, poi raccolgono le firme e ci mandano in banca per il versamento.

Nemmeno qui si tratta di una transazione veloce, ma un impiegato in grado di parlare inglese ci assiste con gentilezza. Durante tutto un buon quarto d'ora, osservo un'impiegata dietro agli sportelli che ha lo sguardo perso nel vuoto e sorseggiare una tazza di tè assorta in uno stato di beatitudine che forse questo ufficio riesce a ispirarle. Un altro impiegato è praticamente sdraiato sulla sua poltrona, che potrebbe per questo motivo essere chiamata una sdraio, proprio dietro gli sportelli aperti al pubblico e pare anche lui in profonda contemplazione.

Con la ricevuta del versamento torniamo alla polizia. Stanno ora scrivendo sul passaporto l'estensione del visto e li vedo lambiccarsi il cervello nel conteggio dei giorni. Contano e ricontano sull'agenda, poi sulle dita e su un calendario, ma quando vedo il risultato di tanti ragionamenti, mi accorgo che hanno sbagliato di grosso. E il grave è che ormai hanno scritto un'estensione solo fino al 26 di agosto, mentre partirò il 1° settembre. Faccio presente l'errore e allora ripartiamo tutti insieme con il conto dei giorni: ora siamo in tre, sei mani e una agenda, la quale riporta tre calendari: quello zoroastriano, quello dell'Égira e quello gregoriano. Come se non bastasse, per complicare ulteriormente, mancano dei fogli, quindi non possiamo seguire questo conteggio astronomico sfogliando le pagine. Alla fine ottengo una rettifica all'estensione del visto e per questi 15 giorni in più se ne va una pagina intera del passaporto. Con la firma del rais si conclude l'epopea del rinnovo, durata tutta una mattinata.